domenica 24 maggio 2015

stay humean


Fra le cose per cui il filosofo scozzese David Hume è noto c’è la cosiddetta “legge di Hume” per la quale non si può far derivare il dover essere dall’essere, ovvero dalla descrizione di uno stato di cose non si può passare a una prescrizione riguardante le cose come dovrebbero essere. Per l’esattezza questa sorta di divieto è formulato nella sua opera con queste parole, come possiamo vedere un po’ meno categoriche:

“In ogni sistema morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l'autore va avanti per un po' ragionando nel modo più consueto, e afferma l'esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è o non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti” (Trattato sulla natura umana, libro terzo, sezione prima).

Diciamo che normalmente la legge di Hume viene usata per criticare quel complesso di argomenti, in realtà piuttosto variegato, noto come fallacia naturalistica, i quali pretendono appunto di derivare degli insegnamenti morali dalla descrizione del modo in cui stanno le cose: “gli accoppiamenti omosessuali sono contro natura e quindi da vietare”, “in natura la donna è sempre sottoposta all’uomo e così deve essere”, eccetera. Ma aldilà di queste parodie di argomenti, Hume è spesso anche considerato come un avversario delle dottrine – più raffinate – del giusnaturalismo, la teoria secondo la quale le norme del diritto positivo devono essere modellate intorno a un diritto naturale preesistente, in qualche senso di “naturale”, che potremmo riassumere come “conforme ai canoni della ragione eterna e universale inscritta nel cosmo”.

Nonostante l’effettivo e noto scetticismo di Hume intorno a queste norme eterne e universali, però, sembra sbagliato fare del filosofo scozzese un campione delle teorie avversarie del giuspositivismo, secondo le quali ogni diritto è “positivo” ovvero esclusivamente frutto della volontà dell’uomo che crea e impone le sue norme. Anche perché a questo punto ci si potrebbe chiedere se la legge di Hume consiste in una pura constatazione o in una prescrizione: ovvero, dalla constatazione di una mancanza di nesso logicamente necessario fra il modo in cui le cose stanno e il modo in cui dovrebbero essere, come può seguire senza contraddizione un divieto di far derivare la legge morale, o il diritto, dalla natura? 

In realtà lo scetticismo di Hume è appunto uno scetticismo a tutto campo, che difficilmente riesce ad oltrepassare la critica demolitrice per costruire e proporre teorie alternative. Cosa che avverrà con l’utilitarismo di Bentham, il quale trasforma appunto la teoria naturalistica di Hume intorno ai sentimenti morali, che vorrebbe essere puramente descrittiva, in una teoria esplicitamente e puramente prescrittiva: non solo il fine delle azioni dell’uomo è, solitamente, la felicità, ma la massima felicità del maggior numero di persone dev’essere lo scopo ultimo delle azioni umane nonché della società. Anche in campo giuridico la sfiducia nel diritto naturale si trasforma nell’attribuzione dell’intera costruzione delle leggi che regolano la convivenza sociale alla sola volontà del sovrano, che legifera e progetta avendo sempre a cuore, ovviamente, la massima felicità del maggior numero.

La posizione di Hume è, in verità, quella di uno spartiacque delicatissimo fra l’ingenua fiducia nella capacità della natura stessa di mostrare le sue leggi morali e giuridiche – che l’uomo avrebbe il solo compito di scoprire e mettere in pratica – e la fiducia – altrettanto se non maggiormente ingenua – nelle capacità ingegneristiche umane, capaci di creare ex novo le regole in grado di garantire al maggior numero la massima felicità. Ma sarebbe facile mostrare come in Hume non vi sia affatto un rifiuto netto e totale dell’appello alla natura, bensì una diversa declinazione di questo rispetto alle prime formulazioni del giusnaturalismo: se “lo stato di natura” dal quale avrebbe origine il contratto sociale è pura finzione narrativa, artificio retorico, questo non significa che i contenuti della “convenzione” che secondo Hume stringe la società siano, oltre che convenzionali, arbitrari o capricciosi e irrazionali.

“Quando nego che la giustizia sia una virtù naturale, uso la parola naturale esclusivamente come contrapposta ad artificiale. In un altro senso della parola, così come non vi è non vi è nessun principio della mente umana più naturale del senso della virtù, così nessuna virtù è più naturale della giustizia. La capacità inventiva è propria della specie umana, e quando un’invenzione è ovvia e assolutamente necessaria, la si potrà correttamente giudicare naturale come tutto ciò che deriva immediatamente dai principi originari senza l’intervento del pensiero o della riflessione. Sebbene le regole della giustizia siano artificiali, esse non sono arbitrarie; né è improprio chiamarle leggi di natura, se per naturale intendiamo ciò che è comune a una specie o addirittura se limitiamo questa parola a significare ciò che è inseparabile dalla specie” (Ricerca sui principi della morale).

La metafora usata è quella dei rematori che devono condurre una barca: sebbene essi debbano per forza di cose accordare i loro movimenti tra di loro, e perciò l’accordo – che nasce dalla loro volontà – non ha in questo senso nulla di naturale, non è necessario che si pervenga a nessun patto esplicito e soprattutto questo non significa che i rematori potrebbero davvero decidere altrimenti, ma il loro accordo nasce in maniera spontanea, “naturale”, dalla concreta realtà della situazione in cui si trovano.

In realtà le dottrine giuridiche di Hume sembrano smentire, a una attenta lettura, quella legge sulla quale si è fondata tanta meta-etica e tanto normativismo giuridico: lo scopo della ricerca humeana in fondo è proprio quello, se non di giustificare e difendere le norme etiche e giuridiche in base alla sua descrizione della natura umana, quello di darne comunque conto e di spiegarle, quindi di mostrare l’emergenza del dover essere dall’essere. In altre parole se il dover essere non può esser fatto derivare dall’essere, è perché le due cose sono inseparabili, descrizioni e prescrizioni sono intimamente legate, il dover essere emerge naturalmente dall’essere, e in ogni caso non può risultare sospeso in una sorta di puro regno delle norme non collegato a nessuna realtà fisica o sociale.

Ne è del resto la riprova il paragone effettuato da Hume dell’ambito giuridico con quello linguistico o quello economico, entrambi esempi abbastanza chiari del come la prescrizione, la norma, nasce da realtà se vogliamo in un certo senso convenzionali ma non arbitrarie, non a disposizione di chi voglia mutare la norma, imporla dall’alto della sua scienza, senza tener conto delle suddette realtà. “Analogamente, anche le lingue si sono gradualmente stabilite grazie a delle convenzioni umane e senza alcune promessa; e analogamente l’oro e l’argento sono diventate le comuni misure di scambio e sono considerate pagamento sufficiente per ciò che ha cento volte il loro valore” (Trattato).

Bentham costituisce ancora una volta un confronto chiarificatore, dal momento che nella sua dottrina proprio l’insistenza su una riforma del linguaggio, che deve eliminare qualsiasi ambiguità e qualsiasi riferimento a termini “non reali”, non empiricamente osservabili, svolge un ruolo centrale e anzi fondativo rispetto alle dottrine etiche e giuridiche. L’ossessione del rigido controllo normativo da parte di Bentham parte così dal sogno della riforma del linguaggio quotidiano per approdare, come sappiamo, all’antiutopia del panopticon, in modo certo non casuale e forse inevitabile (personalmente diffido sempre di chi pretende di cominciare una discussione con un preliminare chiarimento terminologico, che dovrebbe far piazza pulita di qualsiasi equivoco, ma che a dire il vero dovrebbe essere conseguente alla discussione).

Persino nella famosa discussione intorno alla causalità si può vedere in Hume il medesimo atteggiamento: Hume nega che sia possibile osservare nessi causali nei fenomeni naturali, che qualcuno abbia mai osservato qualcosa di più di una mera successione di eventi. Non c’è niente che giustifichi la nostra fede nell’induzione, questa è solo un abito mentale, una sorta di superstizione, ma con ciò Hume non ci invita certo ad abbandonarla, ben consapevole che si tratta dell’unica cosa che abbiamo, e che oltre c’è solo il salto nell’irrazionale vero e proprio (si potrebbero poi indagare, se ciò non andasse oltre lo scopo di questi appunti, i legami della concezione frequentista-oggettivistica della probabilità con l’utilitarismo classico).

Si potrebbe anche sostenere, per concludere, che con Hume il diritto naturale torna ad essere quello che già era prima della sua fortunata formulazione (o tradimento) da parte dei giusnaturalisti, ovvero quel che era nella scolastica medievale. Un diritto che viene sì dalla natura, o addirittura da Dio, ma che non dimentica l’uomo, la sua storia, le sue consuetudini e la sua concreta esistenza.